Abbiamo incontrato il fotografo torinese Silvano Pupella, artista dell’immagine specializzato nel raccontare il mondo delle imprese tramite scatti suggestivi. Le sue opere si pongono a metà tra la tecnica e la poesia, riuscendo a descrivere le realtà lavorative sotto ottiche inaspettate.
In una città come Torino, che ha l’industra e il concetto di produzione all’interno della sua storia stessa, il lavoro di Pupella diventa quasi una testimonianza storica, oltre che artistica. Fotografare un’azienda rappresenta così una forma espressiva del tutto nuova; con i suoi scatti, Pupella mostra l’impresa nella sua nudità produttiva ma anche in una cifra estetica.
Il lavoro del fotografo mescola in maniera armonica e omogenea arte e fotografia tecnica, completando il tutto con un leggero graffio promozionale. Del resto, il suo lavoro si sviluppa nell’ambito della comunicazione, e con le sue foto ne raggiunge i livelli più alti.
Per approfondire il discorso, abbiamo rivolto delle domande direttamente a lui che ha avuto la gentilezza di risponderci, e che per questo ringraziamo.
Intervista a Silvano Pupella

Ci parli un po’ di lei: come e quando è nata la sua passione per la fotografia?
La mia prima macchina fotografica mi è stata regalata per i miei 11 anni e da allora ho sempre fotografato. Mi ha sempre divertito sperimentare usando differenti tecniche, sia di ripresa che in camera oscura; durante gli studi ho fatto l’assistente per una nota fotografa milanese e, per alcuni anni avevo una trasmissione settimanale in radio sulla fotografia (erano gli anni 70 con le prime radio libere).
Poi, come a volte accade, è passato un treno su cui non potevo non salire e la mia vita professionale per trent’anni mi ha portato su tutt’altra strada: sono stato manager d’impresa con importanti responsabilità gestionali. La fotografia è rimasta in quegli anni una passione ma poco più che un hobby fino al 2015, quando decido di abbandonare la gestione d’impresa per riappropriarmi della passione primitiva facendola diventare il mio nuovo mestiere.
Quali sono i fotografi che l’hanno più influenzata o che apprezza maggiormente, e perché?
Sono molti e di differenti epoche: August Sanders, Ansel Adams, Dorotea Lange, Tina Modotti tra i “grandi classici”. Franco Fontana, Mimmo Jodice, Luigi Ghirri, Gabriele Basilico tra i grandi italiani più recenti. In generale mi appassiona uno sguardo inconsueto, la capacità di riprendere “l’invisibile” e farlo apparire in una magia di luce, linee, contrasti, materia. Questo è poi quello che cerco di realizzare con i miei lavori.
La composizione delle sue fotografie è molto equilibrata. Generalmente nelle foto c’è un bel rapporto di vuoti e pieni, e riesce a rendere un’idea geometrica senza mai irrigidire l’immagine.
Questa è una caratteristica che appartiene generalmente a un certo tipo di pittura paesaggistica: oltre ai fotografi, c’è anche qualche pittore tra i suoi punti di riferimento?
La composizione come la padronanza della tecnica sono elementi fondamentali per avere il controllo di ciò che realizzi e vanno studiati e provati. Ma una fotografia per essere una “buona fotografia” deve avere un’anima, deve trasmettere qualcosa, fare emergere quella componente invisibile che colpisce e provoca emozione.
Per quanto riguarda i riferimenti artistici sono tanti. Penso ad esempio al “Street Art” (un linguaggio preciso, quello della segnaletica stradale che viene decontestualizzato e diventa un altra lingua, astratta e contemporanea fatta di segni e materia) esposto a Parigi e Milano, dove i rimandi e le citazioni sono a Mondrian, Rothko, Burri.
Parliamo un po’ della brand identity, cercando di spiegare il concetto anche ai profani del settore.
La Brand Identity è il DNA di una impresa. E’ quell’insieme di valori, di idee, di beni non tangibili che sono unici e rendono unica quell’impresa. Se ad esempio ho un’impresa che produce bicchieri, la mia comunicazione abituale sarà riferita ai prodotti che produco, ai miei bicchieri.
Ma oggi “chiunque” può produrre bicchieri e ci sarà sempre qualcuno che li proporrà ad un prezzo più conveniente, con una gamma più completa ecc. Ma il mio DNA, i miei valori, la mia capacità di creare relazioni all’interno e all’esterno dell’azienda, il mio capitale umano sono elementi unici.
Creare una comunicazione che parli del mio DNA, della mia Brand Identity non sostituirà la comunicazione di prodotto ma darà a quella comunicazione una cornice, un senso, dei valori che saranno solo miei, non riproducibili ed esclusivi.
Come è stato lavorare al Centro Conservazione e Restauro di Venaria Reale? Che sensazioni ha provato?

Quando ho visitato il Centro per il primo sopralluogo sono rimasto affascinato dalla quantità e dalla densità delle sensazioni che mi hanno colpito. L’architettura della struttura, gli spazi, l’entusiasmo di tutte le persone che ho incontrato, la passione per il proprio lavoro, il felice contrasto tra bottega rinascimentale e alta tecnologia, l’interdisciplina e il lavoro di team, la ricchezza “stordente” dei manufatti presenti, la dimensione del tempo, a volte scandito da ritmi frenetici ma spesso sospeso e quasi assente nel lungo lavoro intorno all’opera in cura.
La richiesta, in sé semplice, è stata: “abbiamo visto alcuni dei tuoi lavori e vorremmo che raccontassi l’attività del Centro per corredare con le immagini il nostro report annuale”.
La vera sfida sarebbe stata trasferire in un racconto per immagini non solo tutta la ricchezza che avevo visto e avvertito, ma soprattutto rimandare quel senso di leggerezza e di semplice normalità del fare, di cui solo la competenza e l’alta professionalità sono capaci, nel trasformare grandi attività in gesti apparentemente semplici e facili.
Ho cercato di sviluppare il racconto seguendo innanzitutto tre direttrici principali: lo spazio, il lavoro e le persone. Poi ho sentito la necessità di arginare tutta la ricchezza delle opere che mi circondava per concentrare lo sguardo sullo spazio, il tempo dilatato, il lavoro, la passione.
Da qui la scelta di un bianco e nero caldo, pastoso, dove l’opera d’arte risultasse in secondo piano, strumento (non il fine) di quello specifico contesto, di quel gesto, di quello sguardo particolare.
Volevo inoltre trasferire nel racconto la spontaneità di quei gesti decisi ma rispettosi dell’opera, l’armonia del lavoro e delle persone; così i primi giorni mi sono aggirato per il Centro curiosando, parlando, facendomi raccontare su cosa stessero lavorando senza mai usare i miei strumenti di lavoro.
Volevo fare in modo che, una volta con gli apparecchi al collo, la mia presenza fosse la più discreta possibile per catturare immagini “rubate”, costruite esclusivamente nella trama del mio racconto personale ma non su set pre-allestiti.
L’intento era quello di trasferire sulle immagini tutte le emozioni avute durante la mia prima visita, senza troppe sovrastrutture. Così è nata la collaborazione con Il Centro nel 2018 e prosegue tutt’ora.
Grazie per la disponibilità e soprattutto buon lavoro
Grazie a voi, è stato un piacere.