Nicola Russo, il creatore di “Toh” (di cui abbiamo parlato in un altro articolo) ha gentilmente risposto alle nostre domande in merito al suo lavoro. L’opera, che ha fatto la sua comparsa a giugno di quest’anno, ha riscosso l’apprezzamento di molti cittadini ma non si è salvata da critiche.
Ciò che principalmente non è piaciuto sono state le forme “oversize” del toro, simbolo della città. Tale caratteristica voleva essere un segno inclusivo che non richiamasse i soliti stereotipi di bellezza, talvolta anche finti.
Nicola Russo si presenta come una persona calma e gentile, nonché preparata. La piccola intervista è stata l’opportunità per avere un riscontro dell’opinione che mi ero fatto in merito all’installazione di “Toh” e le critiche mosse. Di seguito riportiamo le parole dell’artista.
Qualche domanda a Nicola Russo
Parliamo un po’ della tua formazione, professionale e artistica
Tutto inizia alla facoltà di ingegneria, da una formazione quindi tecnica, troppo tecnica per la mia indole creativa. Ho iniziato quindi un percorso professionale con il quale ho attraversato diversi ambiti e mondi ricercando un campo che riuscisse a farmi esprimere. Sono partito lavorando negli effetti speciali per cinema e spot, poi designer, event designer, e infine direttore creativo per circa 13 anni in agenzia. Quest’ultimo è stato un luogo importante perché mi ha permesso di vedere e scoprire tante realtà. Lavorando con tanti brand ho avuto modo di stimolare la mia creatività; col tempo ho vinto anche concorsi a livello internazionale, che hanno aiutato a indirizzarmi nella carriera artistica. È andata avanti così fin quando noi tutti non abbiamo vissuto il periodo del Covid. Da lì ho sentito il bisogno di fare qualcosa per una città che mi ha dato tanto, creare un progetto artistico che potesse stimolare le persone.
Ricordiamo brevemente la storia di “Toh”, l’origine di questa idea
Ho cercato un simbolo, una sintesi che potesse esprimere l’idea di rinascita che all’epoca ci preparavamo ad affrontare. Ho voluto raccontare una storia attraverso un’icona simbolo della città. Io ho vissuto in diverse città e di tutte ho sempre cercato di individuare gli elementi caratteristici nei quali i cittadini si riconoscono. Guardando il Toret ho pensato fosse un elemento ideale. È lì da 160 anni, non si è mai schierato per nessuno se non per Torino. Mi sono detto “è il protagonista perfetto di una storia di rinascita”.
Abbiamo visto comparire 3 statue che, secondo i progetti, sarebbero state vendute all’asta e il ricavato devoluto in beneficenza. Ci puoi raccontare cosa è successo?
La mia idea è stata una proposta spontanea che ho fatto al Comune di Torino, completamente autofinanziata. Ho contattato gli assessori cercando di capire la fattibilità di questo progetto. Abbiamo fatto 6 mesi di presentazioni e alla fine siamo riusciti a posizionare in città queste 3 sculture di 2 metri. Le sculture rappresentano per me l’inizio di un dialogo con la città; un dialogo di 90 giorni, seguito da una breve parentesi nella Galleria Subalpina. Adesso stiamo lavorando per una nuova esposizione pubblica delle statue. Sin dall’inizio abbiamo coinvolto la fondazione Candiolo (la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, N.d.A.) perché volevo che da subito il progetto avesse una funzione sociale. L’intento iniziale non è cambiato, il 20% del ricavato della vendita andrà alla fondazione, ma attualmente il dialogo con la città non è ancora finito. Le statue stanno ancora girando in diversi luoghi di Torino e col tempo cercheremo di toccare altre zone della città.

Questo dialogo tra le statue e la città ha avuto i suoi momenti difficili, parlacene un po’
Sì, il messaggio non sembra essere passato subito, forse anche perché sono andato a toccare un’icona torinese quasi “sacra”. Tuttavia col passare del tempo ho constatato come tantissime persone che all’inizio non avevano apprezzato l’opera, ora mi stanno scrivendo dicendo di aver capito messaggio che c’è dietro. L’idea è stata accolta anche da parte di molti brand che ne hanno visto un futuribile simbolo della città. Fin dall’inizio avevo immaginato che una versione più piccola di “Toh” potesse essere veicolata tramite la Rinascente, e così è stato. Del resto l’azienda ha nel nome il concept dell’opera, l’associazione era immediata. Tengo a precisare che tutte le operazioni che faccio con l’opera hanno sempre una parte dei ricavi destinata alla fondazione Candiolo.
Dal tuo punto di vista, in quanto artista e creatore di “Toh”, come hai vissuto le critiche che sono stati mosse all’opera?
Si sa che quando fai un’opera pubblica è come esporsi nudo in mezzo a una piazza. Le critiche un po’ te le aspetti, del resto la parola è libera e ognuno può esprimere un’opinione su ogni cosa. Ho visto però commentare l’opera trattandola come un’operazione politicizzata, cosa che non è mai stata, e che mi è dispiaciuto notare. Non ho mai chiesto fondi, non ho conoscenze politiche. La presenza della sindaca Appendino all’inaugurazione mi ha fatto piacere, al di là della bandiera politica, semplicemente come carica istituzionale in sé. Ringrazio il Comune di questa presenza ma non ne faccio un discorso politico. Per il resto, penso che la critica/attacco tramite social lasci molto il tempo che trova. Tante persone dietro lo schermo non fanno altro che prendersi quei 30 secondi di pseudo celebrità.
In questa apparente confusione artistica, che cos’è secondo te il bello e il brutto nell’arte?
Secondo me non esiste il bello e il brutto. Il fatto che abbiano criticato le fattezze del “Toh” mi fa capire che è sfuggito esattamente questo pensiero, e cioè che l’opera è un manifesto di inclusività, un qualcosa che ci ricorda che siamo tutti imperfetti e non c’è da stabilire chi di noi sia bello o chi sia brutto. Io volevo dare un simbolo positivo e soprattutto un simbolo simpatico riconoscibile nel quale, a loro volta, tutti potessero riconoscersi. È questo che caratterizza l’arte pop, la sua riconoscibilità. Spesso l’arte contemporanea è estremamente valida ma devi saper essere in grado di leggerla, e spesso questo richiede una cultura più o meno approfondita. Ma io ho voluto creare un’installazione urbana pop, un qualcosa che chiunque avrebbe potuto riconoscere.
Attualmente, come già accenato, la Rinascente sta ospitando nel settore “Casa e Design” la riproduzione piccola del “Toh”, dando vita a una nuova versione dell’opera. Quali altri progetti hai per il futuro?
Sicuramente ci saranno altre collaborazioni con la presenza del “Toh”, in particolare delle serie limitate che usciranno nei prossimi mesi presso la Rinascente. Vorrei a questo proposito sottolineare che tutti i Toh in commercio sono opere artigianali fatte a mano in Piemonte, una caratteristica non solo rara in questi tempi, ma che vuole tutelare il nostro territorio. Ci sarà inoltre “Nitto”, l’azienda giapponese che sponsorizza global gli ATP Finals, che userà “Toh” per un’attività interna durante l’evento. Insomma, il “Toh” si propone come una delle tante immagini nuove che possono identificare la città di Torino, anche perché come accennato prima, col tempo si sta iniziando a capire il messaggio inclusivo e di rinascita che l’opera porta con sé.
Grazie per la disponibilità e in bocca al lupo per il futuro.
Grazie a voi, è stato un piacere.
Una considerazione personale su “Toh”
Ciò che mi ha lasciato interdetto di tutta questa storia è stato principalmente il fatto che la critica – sia quella popolare che quella accademica – abbia perso un po’ il senso di “opera buffa”, che è la caratteristica principale del “Toh”. Peggio ancora, in alcuni casi si è confuso il buffo con il brutto, come se fossero due cose simili.
Premesso che parlare di bruttezza nell’arte è compito difficile (umilmente rimando alla lettura di “Storia della bruttezza” di Umberto Eco, che ne sapeva più di me), mi piace ricordare come la storia dell’Arte sia piena di opere dall’estetica singolare. Citare Botero e le sue forme abbondanti è solo la punta di un iceberg.
Esiste tutto un discorso di “antigrazioso” che parte dalle omonime opere di Carlo Carrà e Boccioni e finisce con i baffi alla Gioconda di Duchamp, un’opera dal titolo provocatorio di “L.H.O.O.Q.“, lettere che in francese formano i suoni della frase “Elle a chaud au cul“, un modo un po’ volgare per dire “lei si concede facilmente“.
Ma tralasciando tutte le considerazioni artistiche del caso, penso che la realtà sia un’altra. E cioè che semplicemente tanto la critica ufficiale quanto quella popolare abbia semplicemente perso il gusto dell’autoironia, soprattutto per una cosa minima e inoffensiva come è appunto “Toh”.
E se per un momento ho creduto che la cosa più brutta di quanto accaduto a “Toh” fossero stati gli atti vandalici, riflettendoci meglio credo che essere incapaci di sorridere, di provare empatia per i nostri difetti ridendoci su, sia peggio.